Le prime due parti di questo articolo sono state pubblicate sui numeri 15 e 16.
3.0 Organizzazione
Questo è forse l’aspetto più controverso e arduo da affrontare, in virtù di quando affermato nella prima parte di questo documento, c’è stato un processo di impoverimento delle pratiche del loro contenuto teorico, e per molti versi l’organizzazione è vista, in molti settori del movimento, come un ostacolo alla libertà di espressione degli individui, con le conseguenze che tutti abbiamo sotto gli occhi. spazi sociali trasformati in ludoteche o locali notturni e progetti politici falliti per mancanza di un ricambio generazionale. Bisogna fare i conti con una generazione che non ha storia, e che non realizza una visione del futuro, quindi una generazione abbandonatasi a un eterno presente, a un vivere qui ed ora; e anche quando realizza una visione futura è in chiave competitiva, un prevaricare il prossimo per raggiungere lo scopo.
In questo scenario è veramente difficile tracciare anche solo una direzione da percorrere, sarebbe abbastanza presuntuoso indicare una via profetizzando un avvenire diverso. Ciò che è certo è che l’esempio offre ancora un certo successo nella mente di chi non trova quel che desidera nel suo quotidiano esistere, qui sono le pratiche a determinare inclusione, ma pratiche che non nascono dall’agire per l’agire, che non sono autocelebrazione dell’incapacità di creare immaginari, ma siano la naturale prosecuzione di una sintesi collettiva. La messa in atto di un percorso meditato e ragionato in maniera plurale, con una serie di concetti e punti fondamentali dai quali non si può prescindere.
Probabilmente non abbiamo ancora familiarizzato con lo sfacelo nel quale siamo immersi, primo fra tutti è il problema della comunicazione e della comunicatività a questa associata; non è un problema di cosa comunicare, ma a chi lo si comunica e soprattutto come. Le piattaforme online sono sicuramente utili ma nel momento in cui chiunque può immettere “informazioni” in rete, dalla cacofonia o dal rumore pseudo-informativo, se ne esce seguendo solo qualche canale e lasciando perdere il resto. Non ci addentreremo nella veridicità di quanto si trova online onde evitare di scrivere un trattato, ma rimane un punto che dovrebbe essere dibattuto ossia quella tendenza ad anteporre alla narrazione del sistema una contro-narrazione altrettanto affabulatoria e fascinosa circa l’operato delle esperienze “alternative”.
Parlando quindi di “esperienze” e di pratiche, il discorso trova uno snodo critico nel quale concorrono la comunicazione, l’analisi e, infine, la sintesi operativa (una volta si definiva prassi, ma pare passata di moda). La comunicazione potrebbe in questo senso essere fraintesa come narrazione per raccontare una prassi, ma probabilmente sarebbe auspicabile all’interno della prassi si recuperassero alcuni principi base della comunicazione, comunicazione quindi come confronto che precede – necessariamente – il rapporto dialettico che introduce e scardina le contraddizioni. Il rapporto dialettico può inverarsi anche solo come prassi, nel momento in cui questa si pone come sintesi collettiva che diviene pratica. Ma tornando coi piedi nel presente, quindi fuori dalle indagini astratte, il tema dell’organizzazione e delle pratiche ad essa conducibili apre ad una serie di considerazioni che hanno come filo conduttore, la disamina dello scopo da raggiungere.
Nei paragrafi precedenti si è ragionato sulla tematica legata all’incompatibilità come filo guida delle pratiche realmente conflittuali, cadere nei ruoli di una sciarada non dovrebbe essere tra le nostre prerogative, quindi è imprescindibile una disamina di cosa sia oggi il conflitto e di rimando quali siano le pratiche realmente conflittuali. Anelare l’incompatibilità col sistema, rifiutando nel contempo tanto l’isolazionismo militante quanto la creazione di comunità chiuse in piccoli paradisi di cartapesta, dovrebbe essere la condizione di partenza attraverso la quale rileggere gli ultimi trent’anni della storia dei movimenti in questo Paese. Rileggere invece con rinnovato interesse quelle che sono le istanze del Federalismo Anarchico, anche come elemento di decostruzione di una narrazione a tratti stucchevolmente profetica del confederalismo democratico, accostandolo alle pratiche del mutualismo conflittuale, potrebbe aprire nuovi percorsi condivisibili attraverso i quali giungere ad alcune sintesi organizzative.
Al di là dei mantra dettati da slogan e parole d’ordine, fuori dall’affanno dell’inseguire date dettate da agende parlamentari, equidistanti tanto dalle istituzionalizzazioni dei movimenti quanto dall’assurda retorica dell’estetica del conflitto, probabilmente una soluzione percorribile, e che si sta già in certo modo perseguendo, è quella del recupero delle istanze più genuinamente radicali del conflitto. Ribaltare il paradigma della narrazione totalizzante neoliberista che da un lato sussurra l’impossibilità di un alternativa alla realtà, dall’altra fa dell’esclusione e dell’espulsione lo strumento per continuare a capitalizzare tutto quel comparto sociale che non può essere né produttivo né consumatore, alla stregua di materiale da riciclo. La radicalità profonda della conflittualità che non si trasforma in fuga o non diviene barricata passivamente resistente, ma conflittualità attiva che mira a portare alle estreme conseguenze le contraddizioni del sistema socio-economico nel quale siamo immersi, rimettendo tutto in discussione, a partire dal senso del reddito, finendo al significato autentico di bene comune.
Emanciparsi dal bisogno, quindi riconoscere la “scarsità” come elemento fondante della retorica neoliberista – o elemento che rende il capitale quel che è – scavalcare l’ostacolo attraverso le pratiche di riappropriazione collettiva del sapere – il cosiddetto know-how – come risposta necessaria alla decostruzione del paradigma economico, cercando di non cadere nelle trappole del contadinismo da un lato e dell’accellerazionismo dall’altro. La proposta è quella di praticare l’incompatibilità tentando di scardinare la narrazione capitalista che parla di “benefica competitività” che si trasforma in mors tua vita mea.
J.R. e Lorcon